Del cosiddetto Gender Pay Gap Reporting lanciato da Theresa May avevamo parlato anche qui.
In breve: nel 2017, con l’obiettivo di fare il punto della situazione sul divario salariale di genere, le aziende pubbliche, private e le charity britanniche con più di 250 dipendenti erano state obbligate, pena un’azione legale, a diramare tutti i dettagli inerenti ai compensi dei propri dipendenti entro il 4 aprile 2018.
Che somme possiamo tirare oggi? Innanzitutto, durante i 12 mesi previsti dal processo di compilazione del report, è emersa più di una problematica. Nei primi 11 mesi, solo il 15% dei datori di lavoro ha reso noti i propri dati, mentre oltre 1.500 hanno li hanno diffusi solo nelle ultime 24 ore e altri 1.500 non sono riusciti a pubblicare in tempo poiché «i meccanismi di raccolta online dei dati si sono rivelati più complessi del previsto». E così, nel corso di un intero anno, nessuno è riuscito a velocizzare le cose più di quanto alla fine non sia avvenuto, nonostante il Ministero delle Pari Opportunità avesse previsto «poche ore per completare il processo di rendicontazione».
Alcune aziende, si è scoperto, hanno dovuto presentare i dati più di una volta dopo aver tentato di falsare i numeri o di usare delle scappatoie non includendo nelle cifre originali i collaboratori con i salari più alti. Hugo Boss, per esempio, è stata costretta a rivedere il proprio gap tre volte a dicembre 2017 - passando dallo 0% di divario al 76,5% e poi nuovamente al 4,7%.
Fra chi ha divulgato correttamente i propri numeri, quando questi mettevano in risalto un gap a favore degli uomini (è capitato nel 78% dei casi), il report è stato motivo di danni alla reputazione dell'azienda. Le critiche, peraltro, sono state ulteriormente alimentate dal fatto che molti si siano rivolti ai social e alla stampa per esprimere la propria indignazione. Questo è stato valido anche per quelle aziende che mostrano sulla carta un grande impegno attorno a tematiche di diversità e inclusione, ma che nella pratica hanno rivelato divari di retribuzione particolarmente iniqui.
A questo proposito, Stephen Frost, direttore di Frost Included ed ex Responsabile D&I di KPMG, ha suggerito che per gestire le reazioni negative del pubblico esistono dei passi più o meno falsi che le aziende possono compiere: piuttosto che addurre giustificazioni, la cosa migliore da fare è «ammettere il problema e riconoscere la necessità di una maggiore trasparenza e inclusività». Così, tra un passo e l'altro, fanno capolino cinque fondamentali lezioni che l’Inghilterra ha imparato da questo esperimento e che noi tutti possiamo apprendere a nostra volta. Ce le racconta People Management nella sua pratica lista “What you should do next”.