Rinunciare alla professione per accudire i bimbi, e viceversa: è la storia di tante. Ma possiamo cambiare rotta. La presidente di Valore D, associazione che ha appena lanciato un manifesto a favore delle donne che lavorano, ci spiega come. E ci svela la ricetta per realizzarsi in ufficio («credete in voi stesse»). E in famiglia («smettiamola di voler essere mamme perfette»).
La risposta arriva come una doccia fredda. «Mi dispiace quel posto è andato al tuo collega (uomo!)». Marta, una laurea in Economia, un master e una pancia che cresce a vista d’occhio, è sicura che la sua gravidanza abbia pesato nella decisione di dare la promozione a un altro. Di storie così, in Italia, ce ne sono a centinaia. Perché, nonostante siamo più brave a scuola (tra i laureati oltre il 60 percento è donna), le discriminazioni nel mondo del lavoro rimangono tutte al loro posto: guadagniamo meno degli uomini, non riusciamo ad arrivare nei posti di comando. Di più, spesso siamo costrette a scegliere tra lavoro e famiglia: secondo l’Istat, una lavoratrice su cinque abbandona il posto dopo la nascita di un figlio.
Qualcosa, però, sta cambiando. Nei giorni scorsi il Governo ha stanziato 110 milioni di euro, sotto forma di sgravi contributivi, per quelle aziende che s’impegnano a favorire la conciliazione tra famiglia e lavoro creando asili nido, incentivando il part time o allungando il congedo parentale. E poi Valore D, associazione nata nel 2009 per promuovere il talento e la leadership femminile, ha lanciato un manifesto per l’occupazione: 9 punti, che corrispondono ad altrettanti impegni concreti, per aiutare le donne che lavorano (vedi box a pagina 38). Lo hanno firmato oltre 100 aziende, tra cui colossi come Amazon, Carrefour, Ferrovie dello Stato, Unilever, che ora si impegnano a passare dalle parole ai fatti. Abbiamo incontrato la presidente di Valore D, S andrà Mori, avvocata, manager di Coca-Cola e mamma di due ragazze. Com’è nata l’idea del manifesto? «Volevamo creare una serie di principi generali che potessero essere applicabili a tutte le aziende. Ora puntiamo a farlo firmare anche alle medie e piccole imprese, che in Italia sono la maggior parte. Il nostro obbiettivo è tenere le donne dentro il mercato del lavoro».
Gli studi dicono che la presenza femminile nel mondo del lavoro fa bene anche alle aziende. «Sì, dove ce più equilibrio di genere si raggiungono risultati migliori in termini di profitto. E le donne sono positive anche per la crescita economica: se il 60 percento lavorasse, oggi siamo fermi al 48, il Pii italiano crescerebbe del 12 percento». Cosa aiuta una donna a fare carriera? «Chiedere! La promozione, l’aumento di stipendio. Se non lo fanno, ci sarà un uomo che lo farà al loro posto. In parte, questo blocco è dovuto al contesto: la cultura delle aziende è ancora maschile e non favorisce lo sviluppo professionale femminile. E poi ci sono ragioni storiche: le donne hanno iniziato a entrare nel mondo del lavoro molto dopo rispetto agli uomini». Qual è, invece, la nostra “colpa”? «Facciamo fatica a credere in noi stesse. La prima domanda che mi fanno le collaboratrici quando voglio affidare loro un nuovo incarico è: “Sicura che ce la faccio?”. Naturalmente non è tutta “colpa” nostra: la fiducia si acquista con l’esperienza. E noi ne abbiamo molta meno degli uomini».
Su cosa si fonda la leadership femminile? E in cosa è diversa da quella maschile? «La leadership femminile sta cambiando tantissimo. E quante più donne al vertice arriveranno, tanto più questo cambiamento sarà veloce. Si dice che le signore al comando siano più inclusive, empatiche. In realtà, la loro caratteristica principale è la capacità di mettersi in discussione, che non è un segno di debolezza, ma di intelligenza. Gli uomini, invece, vanno sempre dritti». La carriera delle donne, però, rimane a imbuto: a un certo punto non riescono ad avanzare. Alcune rinunciano addirittura al lavoro per essere madri. I figli sono una zavorra? «E vero che molte donne lasciano il lavoro quando diventano madri. Ma io dico: “Ragazze, fate i figli e pensate anche alla carriera”. Non è impossibile: conosco moltissime donne al vertice che sono madri straordinarie. A me, per esempio, avere figli non ha mai impedito nulla: quando sono stata chiamata da Microsoft ero incinta di 8 mesi. Mi dispiace constatare che, ancora oggi, quando un’azienda assume una donna incinta diventa una notizia da prima pagina. Poi sono arrivata in Coca-Cola, nel 2001, e nel mio team c’erano più uomini che donne: in questi anni ho lavorato per raggiungere l’equilibrio di genere. E ce l’ho fatta. Oggi guido un gruppo di una cinquantina di persone, in maggioranza donne». Facciamo un gioco: lei è il mio capo e io le dico che sono incinta. Come si comporta? «Innanzitutto le faccio le mie congratulazioni e le chiedo se ha già scelto il nome. Poi, nelle settimane successive all’annuncio, cercherò di mantenere alta la sua motivazione perché lei, dopo il congedo, abbia voglia di tornare al lavoro. Spesso, anche per non affaticarla, si tende a diminuire il carico di una donna incinta. Però, così facendo, è come se la si allontanasse già: le sarà più facile, una volta nato il figlio, credere di non aver nulla da perdere a lasciare il lavoro».
Cosa c’è dietro una carriera come la sua? «Una babysitter bravissima! E poi ho imparato a fare i conti con i sensi di colpa. Le racconto un aneddoto. In aereo, di ritorno da un viaggio a New York, mi sono imbattuta nel libro Ma come fa a far tutto? di Allison Pearson, diventato poi famosissimo grazie a un film con Sarah Jessica Parker. Una lettura che mi ha cambiato la vita: ho imparato a prendere la vita con ironia, senza cercare di essere perfetta e senza volere a tutti i costi omologarmi alle altre mamme.
Infine, la capacità organizzativa: mi dovrebbero dare una laurea honoris causa in logistica!». Cosa possiamo fare perché le millennial non vengano schiacciate dal sessismo? «Le discriminazioni ci saranno sempre, ma abbiamo il dovere di aiutare le nuove generazioni a superarle. Le donne possono fare tanto per educare le altre donne. Chi come me è fortunata e ricopre una posizione apicale, deve restituire quello che ha avuto, ovvero donare il suo tempo e le sue competenze alle giovani che vogliono imparare. Se lo faccio io, quelle che lavorano per me lo faranno a loro volta. Ho due figlie di 15 e 19 anni: mi batto per far sì che il percorso per loro sia più facile».
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